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lunedì 27 marzo 2017

Sei incinta? "Pagati il sostituto, sennò te ne vai" - lo schifoso diktat ad una lavoratrice. E non è un caso isolato!





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Sei incinta? "Pagati il sostituto, sennò te ne vai" - lo schifoso diktat ad una lavoratrice. E non è un caso isolato!


Sei incinta? «Pagati il sostituto»
Il diktat: «Sennò te ne vai»

Il caso in carico alla Cgil: «E non è nemmeno isolato»

TREVISO Non si è nemmeno arrabbiata. Stupita, certo, ma non arrabbiata. Come se fosse quasi scontato, come se potesse andare peggio di così. Quando il titolare le ha detto che sarebbe stata lei, incinta di pochi mesi, a dover pagare lo stipendio del suo sostituto per la durata della maternità, e quando le ha detto che in mancanza di questa garanzia avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni, ci ha pensato un po’ e ha sospettato che qualcosa non andasse. È stato il sindacato a cui si era rivolta, la Cgil di Treviso, a dirle che non erano ipotesi accettabili e che avrebbe difeso lei e il suo diritto di mamma lavoratrice. Ma rischia di essere solo la punta di un iceberg perché emerge un caso non unico e nemmeno così raro.
La storia è di quelle che lasciano un fondo di amarezza benché si sia risolta nel migliore dei modi. Si svolge in una piccola azienda artigiana del settore cartografico della Marca, due dipendenti, la famiglia coinvolta nella gestione e nella produzione: una sintesi di rapporti umani e professionali paradigmatica nell’imprenditoria del Nordest. Fra i dipendenti c’è anche una venticinquenne apprendista che, qualche giorno fa, comunica al titolare di essere incinta. È una notizia che riempie di gioia una donna ma che, consapevolmente, pone anche dei dubbi su quale sarà la reazione del datore di lavoro. Quante se ne sentono, in giro, fra dimissioni in bianco e contratti non rinnovati a causa di un pancione. La giovane ne parla quindi al titolare che la pone subito davanti a un bivio: «Mi ha proposto che, durante la maternità, dia io a loro i soldi per pagare il mio sostituto – ha raccontato al sindacato -. Mi è parso strano, ma se non lo faccio vogliono che mi dimetta. Altrimenti temo che mi licenzieranno loro». Il suo datore di lavoro infatti ha opposto la spesa che avrebbe dovuto sostenere per anticipare l’Inps, un costo ritenuto insostenibile per l’attività. Nicola Atalmi, membro della segreteria della Cgil, dopo il contatto con la ragazza ha sgranato gli occhi e chiesto subito un incontro con l’artigiano. «La storia ha avuto un happy ending, l’azienda assumerà un sostituto che pagherà mentre la maternità sarà, come da prassi, sostenuta dall’Inps. La cosa che mi ha sorpreso di più è che la lavoratrice non fosse scandalizzata, lo trovava semplicemente strano – spiega -. Il suo contratto di apprendistato, concluso il periodo di prova, le dava il diritto alla maternità ma lei non lo sapeva. E non è un caso unico».
E continua: «Titolari che avanzano richieste inaudite, non solo nei casi di maternità, e pensano che tutti i ragazzi siano disperati al punto da considerare un’opportunità di lavoro come un favore. Chiedono al dipendente di licenziarsi volontariamente per non sostenere ulteriori spese. Ma vengono da noi giovani bisognosi di una massiccia educazione civica sui diritti e sul lavoro. La ragazza in questione non sapeva che una donna incinta non può essere licenziata ed è francamente inaccettabile». C’è un altro elemento che Atalmi evidenzia a partire da questo caso: «Non voleva che usassimo toni troppo duri per non incrinare il rapporto con l’azienda. Le ho fatto notare che se erano arrivati al punto di volerla licenziare, il timore di incrinare ancora di più il rapporto era surreale. Succede spesso che i lavoratori non vogliono arrivare alle vertenze per lo stesso motivo, come se i diritti venissero dopo i rapporti con l’azienda».
Scuote la testa Mario Pozza, presidente della Camera di Commercio di Treviso e Belluno e imprenditore artigiano: «Non credo che siano casi diffusi, mi sembra più un caso limite. Non credo che il mondo dell’imprenditoria sia ancora così arretrato. Però è vero che per la piccola azienda, che si tratti di artigianato o di servizi, una maternità talvolta è un problema, al di là del costo in sé che poi viene recuperato e compensato. Per quei sei mesi, o per l’anno di aspettativa, i più fortunati inseriscono qualcuno che già conosce il mestiere, ma non è facile. Spesso il sostituto va formato e sul più bello, quando ha imparato, deve tornare a casa». Lancia quindi una proposta: «Potrebbero essere utili delle agenzie specializzate nel creare figure professionali “muletto” nei settori che hanno maggiore necessità. C’è bisogno di specializzazione».

fonte: http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2017/27-marzo-2017/sei-incinta-pagati-sostituta-diktat-senno-te-ne-vai-2401415532375.shtml

venerdì 17 marzo 2017

Nessuno dimentichi Paola, morta seccata dal sole e dalla fatica per 3 euro l’ora! – Ma soprattutto nessuno dimentichi chi ha permesso tutto questo…!!!









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Nessuno dimentichi Paola, morta seccata dal sole e dalla fatica per 3 euro l’ora! – Ma soprattutto nessuno dimentichi chi ha permesso tutto questo…!!!



Ci teniamo a riproporre quest’articolo di due anni fa…

Paola, morta seccata dal sole e dalla fatica. Per 3 euro l’ora


Paola Clemente aveva 49 anni e lavorava dalle 5.30 fino alle tre del pomeriggio, qualche volta anche alle sei, per 27 euro al giorno. Quella busta paga è una lama che affetta un Paese intero. Nemmeno tre pezzi da dieci euro per rinsecchirsi sotto il sole che sale verticale: ma come li spieghiamo questi morti ai nostri figli? Che diciamo a Stefano, suo marito, e a tutti i sopravvissuti della sua famiglia?
Confesso che la storia di Paola Clemente è una di quelle che mi sbriciolano il cuore. Sarà che in fondo per chi come me è cresciuto nell’are metropolitana milanese la parola “bracciante” è un suono che sembra provenire da un’altra epoca, da un altro pianeta o forse sarà che immaginare una donna (madre e moglie) che si secca sotto il sole per sgonfiarsi cadavere in mezzo ai pomodori è una storia che ha dentro tutti i peli peggiori: la dignità che si fa salsa, la schiavitù come resistenza ultima alla disperazione, il lavoro quando diventa annullamento della persona e il senso del dovere che si trasforma in giogo mortale.
Paola Clemente aveva 49 anni e lavorava dalle 5.30 fino alle tre del pomeriggio, qualche volta anche alle sei, per 27 euro al giorno. Quella busta paga è una lama che affetta un Paese intero. Nemmeno tre pezzi da dieci euro per rinsecchirsi sotto il sole che sale verticale: ma come li spieghiamo questi morti ai nostri figli? Che diciamo a Stefano, suo marito, e a tutti i sopravvissuti della sua famiglia?
Oggi sono finite in carcere sei persone: tre dipendenti di un’agenzia interinale di lavoro (avvoltoi sulle costole degli sfruttati) e gli altri anelli di una catena di comando che trasforma le persone in chili di prodotto raccolto e nient’altro. Eppure sei persone, basta poco a capirlo, non possono da sole costruire una giungla che stringe la gola a pezzi interi di Paese. Mentre scriviamo la servitù bene educata continua a macinare vittime; forse non muoiono, riescono a svenire sul letto a fine giornata aggrappati all’ultimo esile respiro ma hanno addosso le stigmate dell’ingiustizia.
C’è un’ombra di giustizia, sul cadavere delle Paole che strisciano nei campi per due euro all’ora. Ma continua a essere notte sotto la calura assassina del sole.